lunedì, gennaio 04, 2010

Cominciamo il 2010

Terminato il rito degli auguri, cominciamo a domandarci su che base si poggia la nostra immutabile speranza di un anno migliore.
Le riflessioni che seguono sono basate su un punto di vista all'interno dell'Europa e in particolare dell'Italia, cioè in stati il cui peso economico è scarso e che sono sottoposti ai venti provenienti dai nuovi potentati.
Possiamo sperare che i governi indichino una prospettiva di miglioramento, un sogno da raggiungere? I problemi concreti delle persone non sono considerati dalle forze politiche. Il continuo dibattito tra le forze politiche è sempre su altri argomenti, su decisioni "politiche" che non sono mai di fondo.
Le scelte trainanti sono fatte dal sistema economico che è diventato mondiale. Una volta la società coincideva con la nazione e con i suoi confini. Oggi tutte le società nazionali non hanno più significato autonomo, ma sono interdipendenti e guidate dal mercato globalizzato. Ogni decisione presa localmente deriva da un precedente movimento o richiesta del mercato. Di fronte a questa situazione ogni stato si arrende e deve giustificare la propria impotenza con la giustificazione che non si può fare altrimenti.
Non è più possibile per nessuna forza politica avere una visione del futuro, un disegno di come la società muterà e quali risorse  mettere in atto per attuarlo.
Unica persona che è riuscita un anno fa a suscitare speranze mostrando una prospettiva futura, il presidente Obama, deve fare i conti con i problemi che gli piovono addosso come gli attacchi del terrorismo, le resistenze delle lobby e come si è detto la crisi economica.
La vecchia democrazia socialdemocratica poteva fungere da mediatore tra i lavoratori e il capitale, assicurando che almeno parte delle conquiste in produttività si traducessero in miglioramento dei salari.
La globalizzazione ha rotto questo meccanismo in quanto i miglioramenti nella produttività si ottengono con la delocalizzazione e con l'uso delle risorse produttive dei paesi a basso costo. Quindi non esiste più spazio per trattative politiche sindacali in cui ci sia qualcosa da cedere o da guadagnare: non esiste più trattativa alla decisione di chiudere le produzioni. Per conseguenza il livello medio dei salari non ha tenuto il passo con i prezzi generando un impoverimento della classe lavoratrice.
Come mai questo impoverimento non dà luogo a tensioni sociali, scontri di piazza, scioperi a oltranza? Per i motivi sopra esposti non c'è nulla da guadagnare quando l'alternativa è la chiusura della impresa con il suo trasferimento e il licenziamento degli addetti.
L'economia di mercato pretende che le risorse siano usate con la massima efficienza e quindi se una produzione ha un costo minore altrove è uno spreco mantenerla ad oltranza in passivo.
Ma il bilancio che tiene conto solo dei costi e dei ricavi dell'impresa e non quelli generali della società è parziale, in quanto non considera lo spreco delle capacità e delle competenze che sono gettate con la chiusura. Se esistesse un mercato in grado di riutilizzarle opportunamente la società potrebbe conteggiarli negli utili, diversamente si devono mettere a perdita.
Questa è la visione deprimente della situazione attuale, nei prossimi post condividerò alcune idee di speranza e di cosa si può fare.
Una cosa per me è assolutamente chiara che la situazione non può essere accettata passivamente, ma cosa si può fare?
I vostri commenti osservazioni e suggerimenti sono ben graditi.

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